Su quanto il vino simboleggi la nostra cultura è stato scritto e riscritto, ma forse ancora non abbastanza.
Il vino è infatti alimento di civiltà, conoscenza e memoria storica forse come nessun altro.
È proprio dalla vite che passa la storia dell'uomo ed è nel tramandare questo "strumento", così capace di essere luogo, comunità umana e clima che abbiamo contezza delle nostre origini. Soprattutto quando questo passaggio di testimone avviene di padre in figlio, di generazione in generazione.
La cultura, termine che deriva dal latino "còlere", coltivare, passa attraverso lo studio, l'esperienza e la lettura dall'ambiente circostante; ecco perché i grandi vini nascono da aziende che hanno saputo tramandare di padre in figlio la conoscenza nella custodia della vigna: il saper scegliere quando vendemmiare; il capire come e quando intervenire e soprattutto quando non intervenire.
Un passaggio culturale che va oltre il cartaceo, i libri e l'intellettualità enologica e che invece è fatto di pragmatismo e rapidità di intervento.
Queste conoscenze richiedono un grande sacrificio se si pensa che un vignaiolo ha a disposizione quaranta, cinquanta vendemmie.
Qui diventa essenziale il ruolo di custode (non di proprietario) della terra da tramandare ai propri figli, insieme al bagaglio culturale da trasmettere loro.
Ne è un simbolo la famiglia Cencioni, che su l'autorevole territorio di Montalcino, in quel di Montosoli, ha dato vita all'azienda Capanna.
Era il 1957 quando papà Giuseppe, sostenuto con forza dai figli Benito e Franco, mise in piedi una delle realtà più significative che questo territorio conosca, iniziando ad imbottigliare già negli anni '60 del Novecento e diventando uno dei venticinque fondatori del Consorzio del vino di Brunello di Montalcino.
Ancora oggi l'azienda Capanna mantiene saldamente intatto quel ruolo di custode e di culla di tramandamenti da padre in figlio, in un territorio il cui nome così altisonante sarebbe bastato per vendere vino e punto. E invece, ancora oggi, ad essere custodi del territorio e a preservare la tradizione dei vini di Capanna, in vigna come in cantina, c'è la quarta generazione della famiglia Cencioni, con Amedeo, figlio di Patrizio.
Se Montalcino, agli occhi dei più, può sembrare un territorio facile in cui riuscire a mantenere viva la tradizione del dare da parte del padre e dell'accogliere da parte dei figli, sicuramente è meno semplice in Tuscia. Ma quando questo accade, il risultato rende fieri.
È il punto di snodo tra Lazio Umbria e Toscana la località acquisita nel 1933 dalla famiglia Mottura e che oggi porta il nome indiscutibile di chi l'ha elevata ad azienda di qualità nel panorama vitivinicolo nazionale: Sergio Mottura.
Mottura è un cognome che lascia pochi dubbi sulle sue origini: Mottura è infatti una frazione di Villafranca in provincia di Torino.
È probabilmente dalle sue radici piemontesi che Sergio ha tratto la forza di trasferirsi a Civitella D'Agliano ed iniziare a vinificare il Grechetto, vitigno autoctono della zona, ma fino a quel momento lontano anni luce dalla sua qualità espressiva. Ma proprio con esso Sergio Mottura verrà definito come "il più grande interprete di grechetto al mondo". Un onere ed un onore, quello della vigna, che sembra esser stato abbracciato totalmente dai figli, in particolare da Giuseppe, che si è fatto portavoce di quell'immenso patrimonio culturale e porta avanti la risma di vini conosciuti come "I bianchi più quotati del Lazio".
Parlavamo di difficoltà nel custodire, mantenere e tramandare un patrimonio vitivinicolo nella Tuscia. Se il confronto tra Civitella e Montalcino, nella dicotomia tra l'altisonanza dell'uno e il misconoscimento dell'altro, vi è sembrato arduo, il meglio deve ancora venire.
Ci sono storie ancor più meritevoli di esser raccontate perché i territori che ne sono teatro, ad un certo punto della loro storia, hanno abbandonato quel senso antico di custodia della terra di cui parlavamo all'inizio, per un più comodo senso di proprietà che li ha condotti verso l'oblio culturale.
Eppure.
Eppure è proprio in questi contesti che nascono le aziende più meritevoli.
Fattoria Lucciano, azienda di Corchiano con le vigne sul territorio di Civita Castellana (siamo nella Tuscia del sud, che guarda a Roma e respira l'aria della Sabina) vede i natali vitivinicoli nel 1974, con Mario Profili, il quale impianta una piccola porzione di Montepulciano per uso domestico e di lì a poco inizierà a vendere il vino come sfuso.
E' con il passaggio del testimone al figlio Ovidio che l'azienda prende uno slancio qualitativo notevole: sarà infatti lui, perseguendo l'idea di voler realizzare un prodotto ben definito ed evocativo anche nella sua veste esteriore (oggi si chiamerebbe packaging), che nel 2009 imbottiglierà per la prima volta il suo vino.
Oggi Fattoria Lucciano è alla terza generazione, con Mario e Daniele Profili: il primo ad affondare le mani nei formaggi che li hanno resi famosi e il secondo a raccogliere il testimone ereditario della vigna e della cantina, dando vita a prodotti di grande valenza identitaria e peculiarità territoriale.
Fattoria Lucciano è sì, significativa di quanto il vino e la vigna siano un passaggio generazionale di padre in figlio, ma anche di quanto questo alimento sia custode del tempo. A celebrare la memoria di chi impiantò quelle viti, l'etichetta più rappresentativa dell'azienda porta il nome di "Maru", a ricordo di chi diede vita a quel patrimonio vitivinicolo da custodire: il nonno Mario.
"La terra non è un'eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli"(Proverbio Amerindio)
Il vostro Sommelier.